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Effetto "placebo"

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In quest’ultimo periodo le cronache riportano spesso notizie di scandali in ambito sanitario, di tangenti pagate da colossi farmaceutici a medici e primari ospedalieri.
Dai microfoni nascosti dagli inquirenti negli uffici di queste aziende si sente parlare di viaggi premio, di congressi organizzati ai Caraibi, di esose richieste subito soddisfatte pur di piazzare medicinali superati, valvole cardiache o quant’altro.

Da queste tristi vicende si deduce chiaramente che chi si reca in un ospedale deve essere "paziente", deve, quindi, essere pronto ad avvalersi di prescrizioni mediche che non sempre hanno lo scopo di migliorare la sua salute, ma, piuttosto, le tasche di chi continua ad arricchirsi sulla sua stessa pelle.

Malgrado il clamore suscitato dalle agenzie di stampa, la maggior parte delle persone continua a ritenere di non avere altre alternative oltre a quelle di rivolgersi al medico o ad un’azienda ospedaliera e, quindi, a seguire alla lettera le loro prescrizioni per tutto ciò che riguarda la propria salute.

Non viene, invece, sottoposto all’opinione pubblica qualcosa che dovrebbe suscitare altrettanto clamore, qualcosa che potrebbe catturare l’attenzione di un osservatore attento e non più disposto a farsi prendere in giro, qualcosa che, però, se compreso nella sua reale portata, andrebbe a ledere interessi enormi.

Stiamo parlando dell’ "EFFETTO PLACEBO", di cui, probabilmente, quasi tutti abbiamo sentito vagamente parlare: sappiamo che è qualcosa che è stato riscontrato e riconosciuto a livello scientifico, ma non ci è stato mai spiegato chiaramente nel suo funzionamento e nella sua valenza.

Nella sperimentazione detta "a doppio cieco", un certo numero di persone, tutte sofferenti della stessa patologia, viene sottoposto ad un test per valutare gli effetti di un nuovo farmaco. Per un periodo stabilito, ad un terzo di queste persone viene, effettivamente, somministrato il principio attivo del farmaco, ad un terzo viene dato lo stesso tipo di preparato (in pastiglie, gocce, o altro) ma senza il principio attivo del farmaco ("placebo"), ed un terzo gruppo non riceve alcun trattamento.

I medici che collaborano non sono al corrente di quali siano i pazienti che hanno ricevuto il principio attivo e quali no e questo fa sì che il loro atteggiamento sia lo stesso verso ognuno di loro, al pari della valutazione degli effetti del medicinale su ogni singola persona.

L’efficacia del farmaco viene valutata in base ai suoi effetti sulle persone che l’hanno davvero ricevuto, confrontati con gli effetti prodottisi nelle persone che hanno preso il "placebo" e con il decorso normale della malattia nelle persone che non hanno ricevuto nulla (dette "gruppo di controllo").

Dai risultati di queste ricerche è scientificamente provata l’esistenza dell’effetto placebo: i cambiamenti previsti vengono riscontrati non solo su una percentuale delle persone che hanno assunto il principio attivo, ma anche su una percentuale di quelle che hanno preso il "placebo"; addirittura, in questi ultimi, si manifestano anche gli effetti collaterali del medicinale.

Uno studio fondamentale condotto nei primi anni cinquanta da Henry K. Beecher della Harvard University indicava che per un ampio spettro di disturbi, tra cui il dolore, l’ipertensione, l’asma e la tosse, circa il 30/40 per cento dei pazienti trae sollievo dall’assunzione di un "placebo".
In alcuni casi, la risposta può essere ancora maggiore: in particolare, nei pazienti colpiti da ansia, agorafobia e depressione si è evidenziato come il "placebo" dia una risposta positiva in quasi il 40% dei casi, una percentuale addirittura superiore a quella ottenuta con terapie consolidate a base di psicofarmaci.

L’efficacia del "placebo" è riconosciuta, a livello scientifico internazionale, da oltre cinquant’anni, eppure il grande pubblico non ne è ancora sufficientemente informato. E questo perché, in effetti, la scoperta sorprendente dovrebbe essere non tanto l’efficacia del farmaco quanto, piuttosto, il fatto sensazionale che, per produrre gli effetti desiderati, numerosi casi non vi è alcun bisogno del farmaco!

Come si può spiegare questo, visto che gli scienziati lo ritengono ancora un fenomeno non chiarito, ed indagano sul nostro cervello per trovarvi la soluzione? Certamente ciò che gli studi hanno evidenziato dovrebbe, per lo meno, aver messo in luce l’importanza fondamentale del rapporto tra il paziente ed il suo terapeuta.

Da parte di molti studiosi è già stato riconosciuto che il "placebo" principale, per il malato, è il medico. Il solo fatto di essersi rivolto a lui, di avere chiesto il suo parere, di aver ricevuto delle attenzioni, di sentirsi prescrivere una cura della quale gli vengono prospettati gli effetti positivi, di fatto già agisce sul suo umore diversamente dal non avere alcuna speranza, e, di conseguenza, anche il suo corpo si predispone al cambiamento ipotizzato.

Se riflettessimo attentamente, potremmo accorgerci che questo meccanismo agisce, nella nostra mente, anche in altre occasioni.
Quello che avviene solitamente è che la nostra mente crede a ciò che le viene detto e ripetuto. Quando sentiamo una notizia sconcertante, inizialmente siamo scettici, ma, se la cosa ci viene ripetuta da più persone, cominciamo a credere che sia vera.
Sullo stesso meccanismo si basa la pubblicità: a furia di sentircelo ripetere, iniziamo a credere che quel detersivo lavi più bianco che più bianco non si può, oppure che quella crema dia sorprendenti risultati contro le rughe in soli sette giorni.

E’ possibile che ciò che pensiamo influisca anche sul nostro corpo?
In questo periodo molte persone sono colpite da influenza ed a tutti noi è stato detto che essa è contagiosa. L’altro giorno un’amica mi ha detto: "Prima l’hanno avuta i bambini, poi l’ha presa mio marito ed io sono qui ad aspettarla!". Non rimarrei certo stupita di sapere che anche lei si è ammalata.

Quante cose ci sono state insegnate e ripetute al punto da condizionare quotidianamente la nostra vita?
La mamma ci ha talmente stressato dicendoci che in inverno dobbiamo mettere la maglia di lana che, se per caso usciamo una sera con un bel body provocante e scollato, ci sentiamo in colpa e restiamo in attesa del raffreddore che seguirà quale giusta punizione per aver osato tanto!

Siamo influenzati ed inappetenti, abbiamo nausea e mal di stomaco, eppure ci è stato detto che, per stare bene, dobbiamo nutrirci tre volte al giorno e quindi ci sforziamo di mangiare nonostante il nostro corpo ci invii chiari segnali per pregarci di concedergli un po’ di tregua.


La nostra mente pilota la nostra attenzione, agisce come una lente di ingrandimento che si sofferma su determinati particolari e lì, senza che ce ne rendiamo conto, va’ la nostra energia.

Abbiamo paura di ammalarci, siamo terrorizzati dall’idea che possa avvenire una determinata cosa e, inconsciamente, facciamo sì che essa accada.
Tutta la nostra energia si focalizza proprio sull’evento temuto, il nostro pensiero vi torna talmente spesso che, a lungo andare, finiamo per realizzarlo. Di quante cose abbiamo detto: "Me lo sentivo!"; "L’avevo sempre saputo!"; "Me lo aspettavo!"; "Figuriamoci se non capitava proprio questo!".

Due anni fa è morta una mia zia che, avendo perso entrambi i genitori in giovane età per un tumore, ha passato gran parte della sua esistenza temendo di fare la stessa fine. Per paura di questo ha evitato per lungo tempo di parlare dei dolori fortissimi di cui soffriva. E, quando, infine, le hanno scoperto il tumore al fegato che l’ha uccisa, mi ha confidato: "Il mio è proprio il tipo peggiore!".
Non solo aveva realizzato le proprie paure, ma anche nel peggior modo possibile.

Mio fratello è terrorizzato dall’idea che possa accadere qualcosa ai propri figli e, senza rendersene conto, circondandoli di attenzioni eccessive, mettendoli continuamente in guardia, sorvegliandoli assiduamente, li sta rendendo insicuri e, quindi, più facilmente predisposti a farsi male.

Per proteggere i nostri figli dal freddo, li copriamo troppo, costringendo il loro corpo al surriscaldamento e ad inutili sudate, rendendoli così meno resistenti e più soggetti ai danni provocati dagli sbalzi di temperatura. "Per il loro bene", senza accorgercene, creiamo noi stessi le condizioni perché si ammalino più facilmente.

La nostra mente è uno strumento meraviglioso e, se ne conoscessimo i meccanismi e fossimo in grado di utilizzarli, potremmo ottenere risultati strabilianti. Portando la nostra attenzione sulle cose utili per la nostra vita e la nostra salute ed eliminando quelle negative ed inutili potremmo avere vantaggi enormi.

Rivolgendo i nostri pensieri alla guarigione anziché alla malattia, smettendo di preoccuparci per cose inesistenti e sforzandoci di migliorare e cambiare i nostri atteggiamenti, saremmo in grado di aumentare considerevolmente la nostra energia, favorendo, in questo modo, i processi di autoguarigione che il nostro corpo è in grado di mettere in atto.
Purtroppo non siamo stati abituati a ragionare in questi termini ma, anzi, esattamente al contrario.

Siamo nati in un certo luogo, in una certa famiglia, abbiamo ricevuto una educazione e degli insegnamenti ben precisi ed in base ad essi ci muoviamo ed agiamo nella nostra vita, senza mai chiederci se ci sono veramente utili, senza mai accorgerci di quanto ci condizionino.
Noi stessi costituiamo il nostro limite, oltre il quale non riusciamo ad andare, perché le nostre abitudini sono talmente sacre e radicate in noi da non farci vedere nessun’altra possibilità.

Quando il nostro corpo ci manda un segnale, un sintomo, lo fa per avvisarci che stiamo sbagliando qualcosa, nella nostra vita.
Questo segnale deve essere interpretato come un campanello d’allarme e dovrebbe indurci a chiedere a noi stessi cosa stiamo facendo che non va.
Quello che facciamo abitualmente, invece, è cercare le cause del sintomo al di fuori di noi.
Se siamo raffreddati è perché abbiamo preso un colpo d’aria, oppure perché il collega ci ha "attaccato" il raffreddore; se abbiamo mal di stomaco è perché abbiamo mangiato qualcosa che ci ha fatto male; se il mal di testa ci spacca in due diamo la colpa alla luce al neon dell’ufficio in cui lavoriamo.
In questo modo evitiamo sempre di interrogarci su quali possano essere le cause dei nostri malesseri e costringiamo il nostro corpo a mandarci segnali ancora più forti ed allarmanti per farsi sentire.
Se assumiamo un farmaco, il campanello d’allarme cesserà di suonare; il sintomo, per un certo periodo, non si farà sentire, lasciandoci l’illusione di aver scampato un altro pericolo mentre, nella realtà, le cause continueranno ad agire dentro di noi. E, quando il segnale riuscirà ancora a farsi udire, potrebbe essere già molto tardi.


Tutto questo, a pensarci bene, è davvero inquietante.
Le cose che accadono nella nostra vita dovrebbero portarci a riflettere su noi stessi, invece gli eventi si susseguono senza che vi poniamo grande attenzione.
Di fatto non siamo consapevoli dei meccanismi che agiscono all’interno della nostra mente e del nostro corpo né, tantomeno, comprendiamo l’importanza della nostra sfera emotiva.
Eppure ognuno di noi è in grado di accorgersi, a posteriori, che prima di manifestare una determinata sintomatologia abbiamo accusato stanchezza, ansia, stress, tensione, che ci siamo limitati ad ignorare come al solito.

"L’uomo non si conosce. Egli non conosce i suoi limiti, né le sue possibilità; non sa neppure fino a che punto non si conosce." (*)

Riteniamo di essere persone adulte e consapevoli, capaci di fare e di realizzare grandi cose quando, in realtà, non ci accorgiamo neppure di non essere padroni di noi stessi e della nostra vita.
Abbiamo ricevuto l’esempio di un certo tipo di esistenza e ci è stato spiegato che quelli sono i canoni di comportamento ideali: ci alziamo, ci laviamo, andiamo a lavorare, mangiamo tre volte al giorno ed alla sera andiamo a dormire.
Uscire dai nostri soliti schemi mentali ci risulta difficile, se non impossibile; utilizziamo sempre lo stesso atteggiamento in situazioni simili, senza neppure domandarci se sia ancora utile, nel periodo che stiamo vivendo.
"L’uomo non può né pensare, né parlare, né muoversi liberamente come crede. E’ una marionetta tirata qua e là da fili invisibili; se lo comprendesse potrebbe imparare qualcosa di più su se stesso, e forse, allora, le cose incomincerebbero a cambiare per lui." (*)

(*) "L’evoluzione interiore dell’uomo" P.D. OUSPENSKY Ed. Mediterranee


Un grazie per la collaborazione a LUMEN, Il Giornale della Natura


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