E’ mezzanotte; non ho riposato per niente e fa freddo. Da diversi minuti
siamo pronti per la partenza, la tensione sale e l’eccitazione è tanta.
Sento che la salopette e la maglia in thermodress riescono a proteggermi bene
dal vento pungente, ma i denti continuano a battere senza sosta e le mani
stringono sempre più il manubrio dalla bici.
Nella bagarre della partenza il nostro team “Duna Rossa” non è in prima fila
come nella tappa d’esordio, ma al segnale del "via", dato dal direttore di gara
appollaiato sul suo inseparabile jeeppone, iniziamo finalmente a pestare sui
pedali per sparare fuori la nostra tensione e contrastare il freddo.
Nonostante tutto il lavoro fatto nel pomeriggio per montare i fari alogeni alla
bici ed i frontalini fissati al nostro caschetto, il nero assoluto delle tenebre
ci inghiotte all’istante: la luna non è piena e si ha una visibilità
non superiore a qualche metro davanti a sé.
Ricordiamo
che dobbiamo buttarci tutto a destra verso le montagne per trovare il terreno
pedalabile - se seguissimo la via più diretta resteremmo irrimediabilmente
impantanati - e, continuando a chiamarci per nome l’un l’altro, procediamo con
tanta apprensione nel buio della notte.
E’ praticamente impossibile riuscire a capire dove puntare la gomma anteriore
della bici per pedalare al meglio: decidiamo di spegnere tutte le nostre luci
per abituare gli occhi alla sola luna. Il risultato non cambia: continuiamo a
scendere dalla bici con troppa frequenza, poiché troppo spesso troviamo sabbia
fine dove affondiamo inesorabilmente.
Probabilmente, poco distanti da noi (avanti, dietro, di fianco) ci sono altre
persone, ma ciò che si vede - a parte il fantastico cielo stellato - è solo la
silouette nera delle montagne.
Pedalare in quel deserto dal terreno così variegato in cui sabbia, pietraie,
rocce, erg… si alternano e si mischiano fra loro in continuazione e senza
soluzione di continuità, richiede una grossa concentrazione e continua
attenzione per non rischiare di andare a finire contro un arbusto secco
provvisto di quei micidiali aculei di acacia che mordono la pelle e forano le
gomme, per non rischiare di andare gambe all’aria per un qualunque banale motivo
o, più semplicemente, per diminuire le probabilità di restare insabbiati… Quando
si è giù a spingere la bici nella fastidiosissima sabbia è decisamente più
faticoso procedere e soprattutto meno divertente (sono un biker non un podista),
ma il lato positivo è l’estrema tranquillità da cui si è pervasi: il silenzio
assoluto interrotto solo dal soffiare del vento, l’opportunità di potersi
guardare intorno e sopra le nostre teste senza alcun affanno e preoccupazione.
Il tempo scorre lentamente e la mente è attraversata da pensieri di ogni
tipo.
Per questa tappa notturna ci eravamo studiati il percorso sulla cartina russa
1:20.000 confrontandolo con la descrizione riportata sul road-book, giusto per
avere la conferma che Patrizio aveva scelto come terreno di gara un territorio
decisamente meno infido del giorno prima: in questo caso ci trovavamo su un
plateau e bastava stare ai margini delle montagne per restare su un percorso
fattibile che si sovrappone (ma solo a tratti) su quello ideale. Nel briefing,
Patrizio ci aveva detto di aver infittito il numero delle balises piantate a
segnalare il percorso (una ogni 1-2 km) ed inoltre su ogni picchetto aveva anche
assicurato la trekking light, un aggeggio che sprigiona una luce fosforescente
per diverse ore (teoricamente doveva durare tutta la notte); in queste
condizioni, i paletti che indicavano la retta via dovevano essere più visibili
ed era sempre piacevole rilevarli ad intervalli per nulla regolari, poiché
troppe volte ci discostavamo dal percorso che aveva tracciato l’organizzazione.
Dopo qualche ora dalla partenza della tappa, avvistiamo la tenda del primo
punto di verifica, dove ci dicono che abbiamo ancora diversi altri concorrenti
dietro di noi. Tuttavia, non siamo poi così interessati alla competizione; siamo
più intenzionati a vivere in modo completo questa fantastica esperienza.
Tira un forte vento e sono sudato: dopo la punzonatura del mio cartellino,
scendo dalla bici, infilo il kway e mi siedo in terra al riparo della ruota
anteriore del fuoristrada dell’organizzazione per mangiare qualcosa prima di
ripartire. Scambio qualche chiacchiera coi verificatori e mi accorgo che sono
copertissimi a confronto di come lo eravamo noi: sciarpe, berretti di lana,
piumini… Deve fare parecchio freddo!
Altri ciclisti e podisti improvvisamente sbucano dal nulla, eseguono il
controllo, bevono qualcosa e spariscono nuovamente. Noi, invece, allegramente
oziamo fino a quando avvertiamo con insistenza i brividi provocati dal sudore
che si raffredda sotto i nostri indumenti: abbiamo coperto appena 14 km dei 65
previsti ed è bene riprendere il cammino.
Per un lungo tratto il terreno è favorevole ai ciclisti nel senso che ha la
giusta consistenza e permette una buona pedalata senza particolari
preoccupazioni: tutte le mie luci sono spente, spingo sui pedali e mi affido
alla luna focalizzando di tanto in tanto una sagoma scura più avanti, più
indietro, più a destra o più a sinistra che non so esattamente a quale dei miei
compagni appartiene, ma è lì, è con me e mi dà affidamento. Non si è mai certi
di andare nella giusta direzione, ma sono sereno e mi sento particolarmente
leggero.
E’
in situazioni come questa, col vento che echeggia nelle orecchie, col terreno
che crepita sotto le ruote, col cielo limpido che ti avvolge interamente
trapuntato di stelle, che la mente se ne va per conto proprio e mille pensieri
si presentano contemporaneamente:
penso a mia figlia Stefania di tredici anni, penso a chi il giorno prima si era
perso in questo territorio così fantastico, ma altrettanto infido e pericoloso,
penso a quegli altri amici coi quali ho diviso altre sensazioni di questo tipo e
che non hanno ritenuto opportuno cimentarsi, penso a quello che potrei dire
quando racconterò questi giorni così intensi, penso a quanto è bello il Piccolo
Carro ed a come si vede nitida la costellazione di Orione che seguo per
individuare la luminosità delle Pleiadi… ma non faccio in tempo a scorgerle che
vengo sbalzato dalla bicicletta! Un grosso sasso aveva deciso di porsi sulla mia
strada e la mia ruota anteriore ci è sbattuta contro con tutte le conseguenze
del caso.
Al km 28 c’è il secondo punto di controllo: i nostri contachilometri avevano
misurato ben oltre quel chilometraggio, ma nessuna traccia della tenda verde.
Mi tornano in mente quei podisti che erano nella nostra tenda.
Ricordo quando, appena ricevuto il road-book e le note aggiuntive, avevano
inserito nei loro GPS tutti i way-point e penso a quanto poteva essere utile in
casi come questo avere uno strumento che ti dice dove devi andare per trovare
quello che stai cercando: speriamo di non doverci pentire per aver scelto di non
ricorrere all’aiuto della tecnologia per l’orientamento...
Cercavo di individuare i bagliori del fuoco del punto di controllo, piuttosto
che la sagoma scura della tenda, quando Carlo rompe il silenzio urlando:
“Tenda-tenda!”, parafrasando il grido “Terra-terra!” dei naviganti. Anche il
secondo “check point” è raggiunto.
Sarà stata la presenza di Simona, lunghi capelli castani e gradevoli forme
sinuose, appartenente allo staff medico al seguito della carovana, sarà stato il
calo della tensione emotiva, sarà stata la stanchezza e il freddo, sta di fatto
che non ho per nulla fretta di ripartire e ne approfitto per sostituire la
camera d’aria anteriore che da diversi km mi costringe a fermarmi per rigonfiare
la ruota: trovo un paio di spine piantate nel copertone che avevano attraversato
anche il nastro protettivo interno e pizzicavano di tanto in tanto la camera
d’aria.
Quando ripartiamo, sono passate le 3.30 di notte ed abbiamo ancora tanti
chilometri da macinare: il morale è buono, le gambe vanno ancora bene e malgrado
la stanchezza, la tensione ed il timore di fare errori di valutazione lungo il
percorso troviamo ugualmente parecchi motivi per goderci la nottata.
Se si escludono i pochi sporadici incontri ora con podisti ora con ciclisti,
siamo sempre rimasti soli con i nostri pensieri e fantasie a seguire il nostro
percorso, di tanto in tanto facendo riferimento alla luce artificiale montata su
una delle nostre biciclette. E’ proprio seguendo il lampeggiare della luce rossa
posteriore di Fausto che realizzo nuovamente quanto l’imprevisto è sempre
presente; improvvisamente, infatti, scompare la luce montata sulla bici e non
vedo nemmeno la sua trekking light verde appesa allo zainetto: pochi istanti e
metto a fuoco i contorni di un uomo che si rialza ed una bici a terra.
Da un po’ di tempo continuiamo a vedere davanti a noi delle luci che non sono
nostre e che piano piano diventano sempre più vicine; stiamo seguendo la stessa
pista, ma sono leggermente più lenti di noi. Li raggiungiamo all’approssimarsi
di un tratto roccioso che, di tanto in tanto, costringe a scendere dalla bici
per prevenire pericolose conseguenze; si tratta del duo Andrea-Roberto e dei
cinque componenti la squadra svizzera. Compiamo in loro compagnia un lungo
tragitto, non disdegnando di fare battute e scambiarci impressioni finché le
nostre scelte divergono e i due gruppi si allontanano sempre più, fino a restare
nuovamente soli con i nostri pensieri.
Continuo
a pestare sui pedali, ma la stanchezza inizia a farsi sentire.
Ennesima foratura. Questa volta addirittura doppia! Sia Gianni che io
dobbiamo sostituire la camera d’aria: avevamo con noi un numero elevato di
camere di scorta, ma non sono state sufficienti. Siamo tutti e cinque al lavoro:
uno smonta la ruota, l’altro ripara la camera d’aria, un altro pre-gonfia.
Siamo tutti indaffarati ed infreddoliti (il vento soffia insistentemente ed ogni
volta che ti fermi, ti si asciuga addosso il sudore gelido) e quasi non ci
accorgiamo di due ombre che arrivano correndo dalle montagne. Riconosco Karim
Mosta insieme ad un altro francese: “Où est le point de repère?!” Capiamo subito
che avevano compiuto un giro più largo e stavano cercando il terzo punto di
controllo, quello che per loro podisti rappresenterà l’arrivo della tappa, la
fine delle fatiche e il meritato riposo al caldo del sacco a pelo. Mentre Gianni
ed io completiamo la gonfiatura dei nostri pneumatici, Fausto, Ambrogio e Carlo
ripartono per non ghiacciare nell’attesa. Trascorrono più di una ventina di
minuti prima che raggiungiamo due dei tre: Fausto aveva seguito una pista che si
spostava ad ovest verso le montagne, mentre tutti gli altri avevano preferito
restare al limite della catena, memori del percorso segnato sulla cartina.
Accendiamo tutte le nostre luci e proseguiamo urlando il suo nome, finché non
udiamo una sua risposta e finalmente il team Duna Rossa si ricompatta.
Rinfrancati e sollevati (soprattutto Fausto!) pedaliamo verso il terzo
chek-point.
E’ a questo punto che sentiamo un rombo sordo e vediamo dei fari in
lontananza: è il fuoristrada con Fiorini a bordo che ci viene incontro: “Ci sono
stati dei problemi causati dalla sabbia, perciò l’arrivo delle bici è quello dei
podisti” - “Ma allora manca poco, siamo arrivati” - “Sì, ormai ci siete. C’è
qualcun altro oltre a voi ?” - “Dovrebbero essere in zona Karim e un suo socio,
per il resto non sappiamo…”
Nessuno di noi chiede informazioni sul perché della riduzione del percorso
decisa durante lo svolgersi della tappa; pensiamo già al sorso di the caldo ed
all’enorme falò per scaldarsi che troveremo una volta giunti al campo. E
spingiamo con maggiore decisione sui pedali.
E’ proprio vero che gli ultimi chilometri sono i più lunghi: un attimo prima sei
concentrato e determinato per portare a termine una prova che richiede ancora
più di un’ora di impegno ed ora non vedi l’ora di arrivare ed ogni minuto sembra
un’eternità.
Non sono ancora trascorse cinque ore dalla partenza quando, alle cinque del
mattino, arriviamo al termine della tappa; non è stato neppure montato l’arco
per indicare l’arrivo, ma la cosa non mi interessa. Rimanderò ad un altro
momento le domande sul perché sono cambiate le cose e su cosa è successo; è
freddo, ora devo andare a scaldarmi davanti al fuoco e cercare il mio sacco a
pelo.
Akakus - Libia
Pierangelo Tesoro
pierangelo.tesoro@st.com
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