Nuovi dati sulle relazioni tra dieta e ipertensione arteriosa da una ricerca dell’Istituto di Scienze dell’Alimentazione (ISA) del CNR e del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Federico II di Napoli
Meno sale (a tavola), meno sale (la pressione). La validità di questo slogan, proposto recentemente dalla Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa per sensibilizzare la popolazione ad un uso più moderato del sale da cucina, riceve in questi giorni un ulteriore sostegno scientifico dai dati di una ricerca condotta dall’Isa-Cnr e dall’Università Federico II di Napoli, pubblicati sulla prestigiosa rivista internazionale Journal of Hypertension.
Lo studio ha evidenziato che lo sviluppo di ipertensione arteriosa è significativamente più frequente nei pazienti con maggiore sensibilità agli effetti pressori del sale assunto con la dieta, rispetto a coloro in cui tale sensibilità è di minor grado. In particolare, a distanza di 15 anni dalla originaria valutazione della sensibilità al sale nei soggetti partecipanti allo studio, l’ipertensione arteriosa si è sviluppata nell’88% dei casi più sensibili e nel 50% di quelli restanti.
La ricerca è stata realizzata nell’ambito dell’Olivetti Heart Study, uno studio longitudinale sui fattori di rischio per le malattie cardiovascolari coordinato dal professor Francesco Strazzullo del Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università Federico II di Napoli, che ha interessato i dipendenti degli stabilimenti dell’Olivetti di Pozzuoli e Marcianise in Campania.
“Nel 1987, durante uno dei periodici controlli previsti per l’Olivetti Study”, spiega Gianvincenzo Barba, ricercatore dell’Isa-Cnr e primo autore dello studio, “abbiamo identificato un gruppo di partecipanti che, pur con valori ancora nella norma, mostravano una differente risposta pressoria al sale alimentare, nel senso che il passaggio dalla dieta ‘abituale’ (in Italia molto ricca in sodio, anche rispetto alla media europea) a quella iposodica era associato ad una riduzione della pressione arteriosa molto maggiore di quella osservata negli altri partecipanti. In quell’occasione rilevammo che in quegli stessi soggetti l’eliminazione urinaria del sodio alimentare in eccesso avveniva al prezzo di valori pressori più elevati e di un surplus di lavoro da parte del rene”.
Recentemente, continua il ricercatore, “abbiamo avuto l’opportunità di rivisitare a distanza di circa 15 anni questi stessi individui e abbiamo evidenziato che, in assenza di variazioni dell’apporto di sodio con la dieta, la maggiore sensibilità al sodio si è tradotta nel tempo in un rischio più elevato di sviluppare ipertensione arteriosa, ovvero in una più precoce insorgenza rispetto a coloro in cui questa sensibilità è di grado minore”.
“Bisogna però fare attenzione”, sottolinea Pasquale Strazzullo, “a non credere che l’eccesso di sale nella dieta sia pericoloso per alcuni ma non per altri. In realtà, il diverso grado di sodio-sensibilità influisce più che altro sui tempi di sviluppo dell’ipertensione, ma esiste una robusta documentazione scientifica sul fatto che una dieta ricca in sodio è un fattore di rischio per tutti o per la grande maggioranza di noi. L’ipertensione arteriosa è una tra le maggiori cause di morte nel nostro Paese e il contenuto di sodio nella dieta degli italiani è molte volte superiore al fabbisogno reale. Per ridurlo, è necessario contenere il più possibile l’aggiunta di sale a tavola e in cucina, ma è anche indispensabile che ne venga ridotto il contenuto nei prodotti alimentari preconfezionati”.
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