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Avventure nel mondo

A cura di: Maurizio Doro

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Tappa notturna nel deserto libico

E’ mezzanotte; non ho riposato per niente e fa freddo. Da diversi minuti siamo pronti per la partenza, la tensione sale e l’eccitazione è tanta.
Sento che la salopette e la maglia in thermodress riescono a proteggermi bene dal vento pungente, ma i denti continuano a battere senza sosta e le mani stringono sempre più il manubrio dalla bici.
Nella bagarre della partenza il nostro team “Duna Rossa” non è in prima fila come nella tappa d’esordio, ma al segnale del "via", dato dal direttore di gara appollaiato sul suo inseparabile jeeppone, iniziamo finalmente a pestare sui pedali per sparare fuori la nostra tensione e contrastare il freddo.
Nonostante tutto il lavoro fatto nel pomeriggio per montare i fari alogeni alla bici ed i frontalini fissati al nostro caschetto, il nero assoluto delle tenebre ci inghiotte all’istante: la luna non è piena e si ha una visibilità non superiore a qualche metro davanti a sé.

Ricordiamo che dobbiamo buttarci tutto a destra verso le montagne per trovare il terreno pedalabile - se seguissimo la via più diretta resteremmo irrimediabilmente impantanati - e, continuando a chiamarci per nome l’un l’altro, procediamo con tanta apprensione nel buio della notte.
E’ praticamente impossibile riuscire a capire dove puntare la gomma anteriore della bici per pedalare al meglio: decidiamo di spegnere tutte le nostre luci per abituare gli occhi alla sola luna. Il risultato non cambia: continuiamo a scendere dalla bici con troppa frequenza, poiché troppo spesso troviamo sabbia fine dove affondiamo inesorabilmente.
Probabilmente, poco distanti da noi (avanti, dietro, di fianco) ci sono altre persone, ma ciò che si vede - a parte il fantastico cielo stellato - è solo la silouette nera delle montagne.
Pedalare in quel deserto dal terreno così variegato in cui sabbia, pietraie, rocce, erg… si alternano e si mischiano fra loro in continuazione e senza soluzione di continuità, richiede una grossa concentrazione e continua attenzione per non rischiare di andare a finire contro un arbusto secco provvisto di quei micidiali aculei di acacia che mordono la pelle e forano le gomme, per non rischiare di andare gambe all’aria per un qualunque banale motivo o, più semplicemente, per diminuire le probabilità di restare insabbiati… Quando si è giù a spingere la bici nella fastidiosissima sabbia è decisamente più faticoso procedere e soprattutto meno divertente (sono un biker non un podista), ma il lato positivo è l’estrema tranquillità da cui si è pervasi: il silenzio assoluto interrotto solo dal soffiare del vento, l’opportunità di potersi guardare intorno e sopra le nostre teste senza alcun affanno e preoccupazione.

Il tempo scorre lentamente e la mente è attraversata da pensieri di ogni tipo.
Per questa tappa notturna ci eravamo studiati il percorso sulla cartina russa 1:20.000 confrontandolo con la descrizione riportata sul road-book, giusto per avere la conferma che Patrizio aveva scelto come terreno di gara un territorio decisamente meno infido del giorno prima: in questo caso ci trovavamo su un plateau e bastava stare ai margini delle montagne per restare su un percorso fattibile che si sovrappone (ma solo a tratti) su quello ideale. Nel briefing, Patrizio ci aveva detto di aver infittito il numero delle balises piantate a segnalare il percorso (una ogni 1-2 km) ed inoltre su ogni picchetto aveva anche assicurato la trekking light, un aggeggio che sprigiona una luce fosforescente per diverse ore (teoricamente doveva durare tutta la notte); in queste condizioni, i paletti che indicavano la retta via dovevano essere più visibili ed era sempre piacevole rilevarli ad intervalli per nulla regolari, poiché troppe volte ci discostavamo dal percorso che aveva tracciato l’organizzazione.

Dopo qualche ora dalla partenza della tappa, avvistiamo la tenda del primo punto di verifica, dove ci dicono che abbiamo ancora diversi altri concorrenti dietro di noi. Tuttavia, non siamo poi così interessati alla competizione; siamo più intenzionati a vivere in modo completo questa fantastica esperienza.
Tira un forte vento e sono sudato: dopo la punzonatura del mio cartellino, scendo dalla bici, infilo il kway e mi siedo in terra al riparo della ruota anteriore del fuoristrada dell’organizzazione per mangiare qualcosa prima di ripartire. Scambio qualche chiacchiera coi verificatori e mi accorgo che sono copertissimi a confronto di come lo eravamo noi: sciarpe, berretti di lana, piumini… Deve fare parecchio freddo!
Altri ciclisti e podisti improvvisamente sbucano dal nulla, eseguono il controllo, bevono qualcosa e spariscono nuovamente. Noi, invece, allegramente oziamo fino a quando avvertiamo con insistenza i brividi provocati dal sudore che si raffredda sotto i nostri indumenti: abbiamo coperto appena 14 km dei 65 previsti ed è bene riprendere il cammino.

Per un lungo tratto il terreno è favorevole ai ciclisti nel senso che ha la giusta consistenza e permette una buona pedalata senza particolari preoccupazioni: tutte le mie luci sono spente, spingo sui pedali e mi affido alla luna focalizzando di tanto in tanto una sagoma scura più avanti, più indietro, più a destra o più a sinistra che non so esattamente a quale dei miei compagni appartiene, ma è lì, è con me e mi dà affidamento. Non si è mai certi di andare nella giusta direzione, ma sono sereno e mi sento particolarmente leggero.
E’ in situazioni come questa, col vento che echeggia nelle orecchie, col terreno che crepita sotto le ruote, col cielo limpido che ti avvolge interamente trapuntato di stelle, che la mente se ne va per conto proprio e mille pensieri si presentano contemporaneamente:
penso a mia figlia Stefania di tredici anni, penso a chi il giorno prima si era perso in questo territorio così fantastico, ma altrettanto infido e pericoloso, penso a quegli altri amici coi quali ho diviso altre sensazioni di questo tipo e che non hanno ritenuto opportuno cimentarsi, penso a quello che potrei dire quando racconterò questi giorni così intensi, penso a quanto è bello il Piccolo Carro ed a come si vede nitida la costellazione di Orione che seguo per individuare la luminosità delle Pleiadi… ma non faccio in tempo a scorgerle che vengo sbalzato dalla bicicletta! Un grosso sasso aveva deciso di porsi sulla mia strada e la mia ruota anteriore ci è sbattuta contro con tutte le conseguenze del caso.

Al km 28 c’è il secondo punto di controllo: i nostri contachilometri avevano misurato ben oltre quel chilometraggio, ma nessuna traccia della tenda verde.
Mi tornano in mente quei podisti che erano nella nostra tenda.
Ricordo quando, appena ricevuto il road-book e le note aggiuntive, avevano inserito nei loro GPS tutti i way-point e penso a quanto poteva essere utile in casi come questo avere uno strumento che ti dice dove devi andare per trovare quello che stai cercando: speriamo di non doverci pentire per aver scelto di non ricorrere all’aiuto della tecnologia per l’orientamento...
Cercavo di individuare i bagliori del fuoco del punto di controllo, piuttosto che la sagoma scura della tenda, quando Carlo rompe il silenzio urlando: “Tenda-tenda!”, parafrasando il grido “Terra-terra!” dei naviganti. Anche il secondo “check point” è raggiunto.
Sarà stata la presenza di Simona, lunghi capelli castani e gradevoli forme sinuose, appartenente allo staff medico al seguito della carovana, sarà stato il calo della tensione emotiva, sarà stata la stanchezza e il freddo, sta di fatto che non ho per nulla fretta di ripartire e ne approfitto per sostituire la camera d’aria anteriore che da diversi km mi costringe a fermarmi per rigonfiare la ruota: trovo un paio di spine piantate nel copertone che avevano attraversato anche il nastro protettivo interno e pizzicavano di tanto in tanto la camera d’aria.

Quando ripartiamo, sono passate le 3.30 di notte ed abbiamo ancora tanti chilometri da macinare: il morale è buono, le gambe vanno ancora bene e malgrado la stanchezza, la tensione ed il timore di fare errori di valutazione lungo il percorso troviamo ugualmente parecchi motivi per goderci la nottata.
Se si escludono i pochi sporadici incontri ora con podisti ora con ciclisti, siamo sempre rimasti soli con i nostri pensieri e fantasie a seguire il nostro percorso, di tanto in tanto facendo riferimento alla luce artificiale montata su una delle nostre biciclette. E’ proprio seguendo il lampeggiare della luce rossa posteriore di Fausto che realizzo nuovamente quanto l’imprevisto è sempre presente; improvvisamente, infatti, scompare la luce montata sulla bici e non vedo nemmeno la sua trekking light verde appesa allo zainetto: pochi istanti e metto a fuoco i contorni di un uomo che si rialza ed una bici a terra.
Da un po’ di tempo continuiamo a vedere davanti a noi delle luci che non sono nostre e che piano piano diventano sempre più vicine; stiamo seguendo la stessa pista, ma sono leggermente più lenti di noi. Li raggiungiamo all’approssimarsi di un tratto roccioso che, di tanto in tanto, costringe a scendere dalla bici per prevenire pericolose conseguenze; si tratta del duo Andrea-Roberto e dei cinque componenti la squadra svizzera. Compiamo in loro compagnia un lungo tragitto, non disdegnando di fare battute e scambiarci impressioni finché le nostre scelte divergono e i due gruppi si allontanano sempre più, fino a restare nuovamente soli con i nostri pensieri.
Continuo a pestare sui pedali, ma la stanchezza inizia a farsi sentire.

Ennesima foratura. Questa volta addirittura doppia! Sia Gianni che io dobbiamo sostituire la camera d’aria: avevamo con noi un numero elevato di camere di scorta, ma non sono state sufficienti. Siamo tutti e cinque al lavoro: uno smonta la ruota, l’altro ripara la camera d’aria, un altro pre-gonfia.
Siamo tutti indaffarati ed infreddoliti (il vento soffia insistentemente ed ogni volta che ti fermi, ti si asciuga addosso il sudore gelido) e quasi non ci accorgiamo di due ombre che arrivano correndo dalle montagne. Riconosco Karim Mosta insieme ad un altro francese: “Où est le point de repère?!” Capiamo subito che avevano compiuto un giro più largo e stavano cercando il terzo punto di controllo, quello che per loro podisti rappresenterà l’arrivo della tappa, la fine delle fatiche e il meritato riposo al caldo del sacco a pelo. Mentre Gianni ed io completiamo la gonfiatura dei nostri pneumatici, Fausto, Ambrogio e Carlo ripartono per non ghiacciare nell’attesa. Trascorrono più di una ventina di minuti prima che raggiungiamo due dei tre: Fausto aveva seguito una pista che si spostava ad ovest verso le montagne, mentre tutti gli altri avevano preferito restare al limite della catena, memori del percorso segnato sulla cartina. Accendiamo tutte le nostre luci e proseguiamo urlando il suo nome, finché non udiamo una sua risposta e finalmente il team Duna Rossa si ricompatta. Rinfrancati e sollevati (soprattutto Fausto!) pedaliamo verso il terzo chek-point.

E’ a questo punto che sentiamo un rombo sordo e vediamo dei fari in lontananza: è il fuoristrada con Fiorini a bordo che ci viene incontro: “Ci sono stati dei problemi causati dalla sabbia, perciò l’arrivo delle bici è quello dei podisti” - “Ma allora manca poco, siamo arrivati” - “Sì, ormai ci siete. C’è qualcun altro oltre a voi ?” - “Dovrebbero essere in zona Karim e un suo socio, per il resto non sappiamo…”
Nessuno di noi chiede informazioni sul perché della riduzione del percorso decisa durante lo svolgersi della tappa; pensiamo già al sorso di the caldo ed all’enorme falò per scaldarsi che troveremo una volta giunti al campo. E spingiamo con maggiore decisione sui pedali.
E’ proprio vero che gli ultimi chilometri sono i più lunghi: un attimo prima sei concentrato e determinato per portare a termine una prova che richiede ancora più di un’ora di impegno ed ora non vedi l’ora di arrivare ed ogni minuto sembra un’eternità.
Non sono ancora trascorse cinque ore dalla partenza quando, alle cinque del mattino, arriviamo al termine della tappa; non è stato neppure montato l’arco per indicare l’arrivo, ma la cosa non mi interessa. Rimanderò ad un altro momento le domande sul perché sono cambiate le cose e su cosa è successo; è freddo, ora devo andare a scaldarmi davanti al fuoco e cercare il mio sacco a pelo.

Akakus - Libia

Pierangelo Tesoro

pierangelo.tesoro@st.com

 

 


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